Archivi del mese: gennaio 2011

Comitato

I politici d’Italia sono pieni di fantasia e così un lunedì mattina qualsiasi apprendiamo che Massimo D’Alema ha offerto alleanza a tutti, dall’UDC a Futuro e libertà, ai vendoliani e ai dipietristi, per far fuori Silvio Berlusconi. Che ricordiamo – così, quasi per caso – è stato democraticamente eletto dagli italiani recatisi alle urne. I giornalisti italiani sono ancora più fantasiosi e già parlano di Comitato di liberazione nazionale. Comitato che? Comitato di liberazione nazionale, come ai gloriosi tempi dei partigiani e della Guerra civile. La chiamiamo Guerra civile e non Resistenza per fare dispetto, di proposito.

Dunque il Cavaliere sarà pure stanco e vecchio diciassette anni di politica in prima linea. Avrà pure stancato, ma all’opposizione sono messi peggio. Poi uno si domanda perché vince sempre – vince, ripetiamo, giusto per ribadire il fatto che Berlusconi è presidente del Consiglio per volontà popolare, piaccia o meno.

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Scaricato

Farà finta di nulla, i suoi spin doctor di Farefuturo o quelli della nuova Generazione italiana taglieranno corto o prenderanno del tutto la scorciatoia. Intanto Gianfranco Fini ieri è stato scaricato e non da uno qualsiasi, ma dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Che saggiamente ha ricordato al governo che sarebbe il caso di rimettersi al lavoro in modo serio e continuo e che, nello stesso tempo, ha sponsorizzato un probabile candidato a premier nel prossimo futuro:

Un nuovo primo ministro deve avere la maggioranza in Parlamento e deve essere indicato dagli elettori, cosa sulla quale sono d’accordo: se ci saranno le condizioni perchè Tremonti abbia queste caratteristiche, perché no?

Si può discutere la scelta o meno per l’attuale ministro dell’Economia: ma sul silenzio generale attorno al presidente della Camera non vale nemmeno le pena di soffermarsi troppo.

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Almeno c’è la Lega

Del partito guidato da Umberto Bossi si può dire di tutto e di più. Si può anche aggiungere che con gli anni si è adeguato al sistema Italia e ha appreso l’arte di disporre al meglio le poltrone per i suoi uomini, come che ha smarrito quella vena libertaria che l’ha caratterizzata nei primi anni di vita. Ma rimane il fatto che in queste ore di frenetico gossip giudiziario, sia la Lega Nord a parlare di politica.

Prima su un tema a lei caro come il federalismo, poi consigliando al premier Silvio Berlusconi di abbassare i toni nello scontro con i nemici giurati, i pubblici ministeri di turno. L’alleanza di governo sarà garantita dall’approvazione del federalismo fiscale: se quindi il Cavaliere vuole continuare a presiedere il governo, dovrebbe prestare particolare ascolto ai consigli dei leghisti.

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Presidente, è finita

Personalmente, non ne posso più di questa storia. Non è per fare demagogia spicciola come un Paolo Mieli qualsiasi, ma magari qualcuno si mettesse nei panni di chi cerca di sistemarsi con il lavoro in Italia e invece di sentire che la classe dirigente si impegna a risolvere alcune questioni, la troviamo incollata alla serratura della camera da letto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Chi sostiene che il Cavaliere possa riprendersi da questa vicenda, per quanto mi riguarda, sbaglia. Perché se è vero che alla gente comune alla fine non fa né caldo né freddo, è altrettanto vero che la politica si muove su piani diversi: non è un caso che i sondaggi valgano il tempo di un giorno per poi rivelarsi sballati una volta che arrivano i risultati ufficiali dalle urne.

Governativamente, Berlusconi non può più sperare di andare avanti. Perché politicamente è sotto ricatto. Il terzo polo avanzerà pretese, l’opposizione avrà dalla sua il gossip per montare la protesta, la Lega vuole portare a casa il federalismo fiscale, ma da un momento all’altro i numeri potrebbero venire meno. E non appena il capo traballa, i fedeli si mettono a ballare perché è il loro destino, il destino di gente che non ha altro interesse che quello di muoversi nei palazzi del potere. Il riciclaggio è all’ordine del giorno in giorni come questi.

Ogni Paese ha il governo che si merita, recita un vecchio e consolidato adagio che non sempre corrisponde al vero. Ma se per i detrattori di Berlusconi gli italiani si meritano un premier così, altrettanto gli stessi detrattori si meriteranno – qualora riuscissero ad imporsi – un uomo per tutte le stagioni come Gianfranco Fini o un qualsiasi esponente del Pd che parte sapendo di non avere dalla sua il partito, diviso com’è da tante di quelle correnti che nemmeno una catapecchia in alta montagna può vantare. E con idee che rivelano una malcelata lotta sociale.

La noia e la stanchezza possono portare a fare valutazioni sbagliate, ma è anche vero che ci abbiamo fatto il callo. C’è un sistema parallelo a quello costituzionale che vanta di muoversi nel “solco della costituzione” che non ha mai digerito un’interruzione targata Berlusconi. Il quale, da 17 anni, cavalca l’onda, tra alti e bassi, tra promesse fatte e non mantenute, ma al quale va riservato il ringraziamento per aver dato una svolta alla nazione nel 1994. Al di là che fosse un santo o meno. Ma il dato di fatto è che quest’avventura è finita, al capolinea, nonostante tutti gli sforzi possibili, perché il suo privato è divenuto di dominio pubblico. Oggi sappiamo che al presidente del Consiglio piace addormentarsi “a seggiolina”, abbracciato alla compagna di letto e masticando una mentina per l’alito. I media riportano le frasi più crude e nude delle intercettazioni, abusando del corpo delle donne: loro che muovono a Berlusconi di aver trattato il gentil sesso sempre ed esclusivamente come una merce.

Tutto questo nulla ha a che vedere con la politica. E’ ben per questo motivo che Silvio Berlusconi, ormai, è condannato a non poter più governare.

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Non sanno perdere

Alla fine, il 54% di chi ogni giorno si reca a Mirafiori ha votato per il sì nel referendum sul nuovo accordo tra la Fiat e i sindacati. Ma ovviamente, visto che i numeri sono un’opinione a dispetto delle leggi matematiche, a vincere è stato il no, che ha ottenuto il 46% dei voti. Ha vinto il no, fanno sapere quella della Fiom, perché il sì ha potuto fare affidamento sugli impiegati che, evidentemente, sono meno lavoratori degli operai. Tutto questo, bene intenso, nell’ottica di una generale uguaglianza del proletariato.

Hanno fatto sapere, quelli della Fiom, che nonostante un certo fascismo repressivo che pervade lo stabilimento di Torino, gli operai hanno fatto sentire la loro voce al grande despota, Sergio Marchionne, che non potrà fare a meno di tenere seriamente in considerazione il risultato del referendum. Già: perché se fosse stato negli USA, l’ad Fiat avrebbe dovuto tenere conto della vittoria dei sì, forti del loro 54%, ma trovandosi in Italia, dovrebbe cedere – nelle intenzioni dell’opposizione sindacale – alle richieste della minoranza. Anche in questo caso, tutto nell’ottica di una generale uguaglianza del proletariato che esercita democraticamente il diritto di voto.

Poche storie: vincono soltanto loro, anche quando perdono. Perché di sconfitta si tratta: fino ad un paio di mesi fa, ma ci saremmo aspettati che il sistema sindacale italiano arrivasse ad una spaccatura definitiva al suo interno tra chi si adegua ai tempi che corrono e chi, invece, ha il calendario fermo agli anni ’70. E la Cgil – Fiom ne prenda atto, mentre finge di stappare le bottiglie di spumante perché, a detta loro, una malvagia logica matematica li avrebbe fatti vincere.

Ps: patetica prestazione del giornalista del Fatto, Luca Telese, che ieri si è messo a fare il capo popolo in diretta, ospite del programma di Gianluigi Paragone su Rai 2, L’ultima parola. Ancora più patetica l’arroganza con la quale ha insultato Oscar Giannino in studio (“Si vede dalla tua figura che non sei uno di quelli che lavora alla catena di montaggio”, ha detto il pennivendolo manettaro).

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Una trombata seppellirà tutti

Se fino a qualche tempo fa la battaglia giudiziaria attorno a Silvio Berlusconi convergeva sugli affari imprenditoriali del presidente del Consiglio, oggi ha un altro punto di riferimento: l’apparato riproduttivo femminile. Utilizziamo un linguaggio tecnico perché non vorremmo passare per sporcaccioni, ma ci siamo intesi. La procura di Milano ha convocato il Cavaliere il 21 0 22 0 23 gennaio, per passare al rito abbreviato dal momento che ritiene di avere in mano le carte per incastrarlo seduta stante – e poi si battevano il petto e stracciavano le vesti, lor signori, quando si parla di processo breve. Le vicende di letto del capo del governo rischiano di far saltare i piani per il rafforzamento della maggioranza in Parlamento, consente all’opposizione di far quadrato attorno all’eterno nemico nascondendo le frizioni interne e permette a Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini di ridisegnare le singole strategie per salire alla definitiva ribalta. Perché non è la politica a farla da padrona in Italia, ma sono le trombate di Silvio Berlusconi.

L’accusa è di farsela con una prostituta minorenne, oltre che di aver abusato del proprio ruolo. Il tutto accade il giorno dopo che la Corte costituzionale ha gambizzato il legittimo impedimento, per quanto il premier risulti indagato dal 21 dicembre. Ma la notizia, come detto, è apparsa solo oggi. Una nuova manovra, diversa dalle altre, quando ad esempio venivano messe on line le registrazioni della Patrizia D’Addario, con le indagini ancora in corso e tutto il resto. Stavolta qualcuno deve avere dato un’occhiata al calendario e segnato la data del 13 gennaio, giorno della fatidica pronuncia della Consulta, mettendo in conto la bocciatura totale o parziale. Tagliando fuori dai giochi Michele Santoro, che dovrà attendere fino a giovedì prossimo per darci dentro. Ma il sacrificio è contemplato.

Ma a questa “legge”, il fatto che il Cavaliere si sia trombato o meno una minorenne poco importa: è solo il mezzo per giustificare il fine. E non si faccia finta di nulla, perché il tempismo adottato è proprio roba da sgamo, come si dice degli studenti che si fanno beccare mentre copiano il compito in classe.

Così, mentre tra qualche ora sapremo il risultato di un referendum importante per capire in che direzione possa andare il lavoro di casa nostra, par di capire che Ezio Mauro e Marco Travaglio ce l’hanno a barzotto, mentre altri si chiudono in bagno e si danno all’arte amanuense con le foto e i video delle feste di Arcore e Villa Certosa recuperati dal pc di Ruby. Dopo ti fanno le menate sul corpo delle donne usato come merce di scambio: ma bravi, è ben quello che li fa esaltare nella lotta contro il nemico.

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L’uomo nuovo?

E se fosse lui, Sergio Marchionne, l’uomo del prossimo decennio? L’amministratore delegato della Fiat ha dichiarato di voler innovare, che in un Paese come l’Italia significa andare alla guerra. Dal 1994 il coro ha ripetuto “vogliamo riformare” ed è chiaro che innovare vuol dire ben qualcos’altro: è un passo in avanti, mentre l’economia va all’indietro e con essa un po’ tutto il resto. Marchionne vuole continuare a produrre macchine riducendo i costi per stare al passo con i competitori, mentre i cosiddetti tutori dei diritti dei lavoratori – i sindacati – si fanno la guerra, divisi tra chi ha preso atto che qualcosa deve cambiare e chi, al contrario, non ha alcuna intenzione di presupporre che i tempi siano sempre gli stessi mentre siamo giunti, tra una fatica e l’altra, al 2011. Con pochi spiccioli in mano e con sacrifici da mettere in conto.

Ecco perché innovare significa andare alla guerra. La tiritera è sempre la stessa, i luminari ci raccontano che l’Italia è in grande difficoltà perché le riforme non sono mai stati fatte e, in caso contrario, sono state fatte male, nemmeno a metà. Meglio conservare uno spirito ottimistico per non far cadere le braccia, però è evidente che ogni giorno dobbiamo fare i conti con un sistema complessato dalla commistione di corporativismo e dirigismo di stato, avvallato anche da quelli che ogni tanto fanno capolino nel dibattito sventolando la bandiera della libertà e dell’iniziativa privata, salvo poi tirarsi indietro quando gli viene chiesto cos’abbiano davvero in mente. Luca Cordero di Montezemolo è l’ultimo dei casi in questione.

Sergio Marchionne ha il merito di aver chiuso la porta alla politica dai progetti per il gruppo automobilistico di Torino. Ha lasciato nell’angolo anche Confindustria, ha aggirato i contestatori e ha provato ad instaurare un dialogo con i diretti interessati, i lavoratori. Forte del fatto che le chiavi della fabbrica appartengono a lui, si è pure permesso di passare per malmostoso e superbo, dicendosi pronto a fare le tende se il referendum di Mirafiori dovesse fallire in una maggioranza di “no” davanti al nuovo contratto. Agli occhi degli italiani sembra qualcosa di inaudibile e di impossibile, ma si sa che quelli di provincia si credono sempre più furbi degli altri. L’ad italo-canadese corre il rischio di fallire nei suoi intenti, soprattutto se non dovesse riuscire a risollevare le sorti della produzione di macchine, ma è risaputo che chi sta immobile di certo non commette errori, salvo finire per essere travolto dagli eventi.

Insomma, Sergio Marchionne sarebbe il top dei candidati possibili al momento per rimettere in sesto questa parte del mondo. Dopo la promessa rivoluzione liberale che Silvio Berlusconi ha dovuto tradire, confrontandosi anche con una mentalità “statale” dei suoi alleati, non ci rimane che Marchionne, in grado di raccogliere i consensi di quell’elettorato di centrodestra che vorrebbe scegliere per il futuro, senza dover passare per un Gianfranco Fini che è la massima delle espressioni dell’opportunismo partitico. Il Cavaliere ha fatto il suo tempo, diciassette anni di politica sono troppi, deve lasciar strada a qualcun altro, ma questo qualcun altro non c’è nell’odierna maggioranza. I sedicenti proclami liberali di Fini non valgono nemmeno la pena di essere raccolti.

A Marchionne viene rinfacciato che se non fosse stato per i soldi dei contribuenti italiani, ora la sua Fiat non sarebbe nemmeno in piedi. È sacrosanto lamentarsi della cosa, ma non è colpa sua se gli Agnelli hanno contrattato con lo stato per anni e anni. Come si usa dire che la colpa dei padri non deve cadere su quella dei figli, è altrettanto giusto che i demeriti dell’Avvocato e della vecchia politica non finiscano per rompere le scatole al manager d’esportazione. Il guaio è che Marchionne non pare intenzionato a fare politica. È troppo lesto.

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La presunzione del narratore

Noi vivremo anche in un mondo piccolo, ma quando accadono dei fatti cerchiamo per prima cosa di capire che cosa è accaduto anche tutt’attorno. Da sabato gli esperti di robe americane che scrivono sui giornali italiani o compaiono dietro gli schermi delle televisioni hanno focalizzato il “mandante” della tragedia di Tucson, Arizona, nella quale è rimasta coinvolta anche la deputata democratica Gabrielle Giffords. E hanno chiuso il caso, tanto che oggi sulle prime pagine la notizia è scomparsa.

Non importano gli sviluppi delle indagini, quelle condotte dalla FBI e della polizia locale. D’altronde, accusare Sarah Palin è fin troppo facile dal momento che al pubblico italiano l’ex governatrice dell’Alaska è stata presentata come una pazza pasionaria e il movimento dei Tea Party come una sorta di milizia ultraconservatrice ai suoi ordini. Le approssimazioni hanno fatto proseliti e per i Vittorio Zucconi di turno non c’è altro da aggiungere. I sospetti – nemmeno gli indizi – parlerebbero da soli.

Pare che pochissimi cronisti di casa nostra si siano presi la briga di guardare alcuni dei video postati su YouTube dal 22enne Jared Lee Loughner: filmati senza senso, dove non compare alcun riferimento politico attuale, messaggi senza senso che danno l’idea della confusione mentale che naviga nel cervello del ragazzo. Eppure, imbevendosi del verbo incarnato nei media liberal statunitensi, le redazioni italiane hanno copiato e incollato i vangeli di turno, salvo poi affidare al Zucconi ritratti di angoli d’America rimasti al tempo del Fra West. Quelli tirano sempre, la firma è una garanzia dell’eterna presunzione dei narratori che ambiscono a diventare protagonisti della storia. Pur non capendone una mazza.

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Troppo facile

C’è gente che si è stracciata le vesti per un paio di articoli pubblicati dal Corriere (1 e 2) e per alcuni passaggi nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sensazioni condivise, voglia di speranza per un anno quantomeno decente, la forza delle idee che non tramonta mai, la solita minestra riscaldata. Non occorrevano certo due editoriali sul quotidiano di via Solferino o un messaggio istituzionale per sollevare la coperta sui guai del nostro Paese: i poveri cristiani che tutti i giorni non vivono nei palazzi della politica, ma sul luogo di lavoro o no li conoscevano da tempo. Ma l’abilità della classe dirigente attuale e futura – o forse futurista? – nel ribadire “noi sono anni che lo diciamo!” è meravigliosamente scandalosa.

E’ troppo facile mettersi ad applaudire ora. E’ troppo facile ipotizzare che sia solo il Cavaliere la causa dello stallo di questa nazione, per quanto con 20 anni di carriera politica alle spalle, anche Silvio Berlusconi ha le sue responsabilità: attendiamo ancora non la rivoluzione liberale, ma almeno un taglio delle tasse, manco che vengano dimezzate, ma giusto una sforbiciata per dare un senso alla dignità dei contribuenti, giusto per fare un esempio tra i mille.

La colpa è di tutti quelli che da vent’anni cavalcano la scena e non hanno combinato granché. In compenso, a quanto pare, leggono i giornali e così rubano passaggi dai commenti pubblicati e vi appongono il proprio marchio di fabbrica. Il guaio è che non c’è da rallegrarsi: i curriculum di chi aspira al potere in Italia ci dicono che siamo davanti a personaggi che hanno gravitato da sempre attorno ai salotti della politica, che hanno fatto della politica il loro lavoro, senza rispondere al principio della responsabilità per cui se uno sbaglia sul luogo di lavoro, qualcosa dovrà pure pagare. Scene che abbiamo già visto e che ci hanno ridotto a ciò che siamo.

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