E se fosse lui, Sergio Marchionne, l’uomo del prossimo decennio? L’amministratore delegato della Fiat ha dichiarato di voler innovare, che in un Paese come l’Italia significa andare alla guerra. Dal 1994 il coro ha ripetuto “vogliamo riformare” ed è chiaro che innovare vuol dire ben qualcos’altro: è un passo in avanti, mentre l’economia va all’indietro e con essa un po’ tutto il resto. Marchionne vuole continuare a produrre macchine riducendo i costi per stare al passo con i competitori, mentre i cosiddetti tutori dei diritti dei lavoratori – i sindacati – si fanno la guerra, divisi tra chi ha preso atto che qualcosa deve cambiare e chi, al contrario, non ha alcuna intenzione di presupporre che i tempi siano sempre gli stessi mentre siamo giunti, tra una fatica e l’altra, al 2011. Con pochi spiccioli in mano e con sacrifici da mettere in conto.
Ecco perché innovare significa andare alla guerra. La tiritera è sempre la stessa, i luminari ci raccontano che l’Italia è in grande difficoltà perché le riforme non sono mai stati fatte e, in caso contrario, sono state fatte male, nemmeno a metà. Meglio conservare uno spirito ottimistico per non far cadere le braccia, però è evidente che ogni giorno dobbiamo fare i conti con un sistema complessato dalla commistione di corporativismo e dirigismo di stato, avvallato anche da quelli che ogni tanto fanno capolino nel dibattito sventolando la bandiera della libertà e dell’iniziativa privata, salvo poi tirarsi indietro quando gli viene chiesto cos’abbiano davvero in mente. Luca Cordero di Montezemolo è l’ultimo dei casi in questione.
Sergio Marchionne ha il merito di aver chiuso la porta alla politica dai progetti per il gruppo automobilistico di Torino. Ha lasciato nell’angolo anche Confindustria, ha aggirato i contestatori e ha provato ad instaurare un dialogo con i diretti interessati, i lavoratori. Forte del fatto che le chiavi della fabbrica appartengono a lui, si è pure permesso di passare per malmostoso e superbo, dicendosi pronto a fare le tende se il referendum di Mirafiori dovesse fallire in una maggioranza di “no” davanti al nuovo contratto. Agli occhi degli italiani sembra qualcosa di inaudibile e di impossibile, ma si sa che quelli di provincia si credono sempre più furbi degli altri. L’ad italo-canadese corre il rischio di fallire nei suoi intenti, soprattutto se non dovesse riuscire a risollevare le sorti della produzione di macchine, ma è risaputo che chi sta immobile di certo non commette errori, salvo finire per essere travolto dagli eventi.
Insomma, Sergio Marchionne sarebbe il top dei candidati possibili al momento per rimettere in sesto questa parte del mondo. Dopo la promessa rivoluzione liberale che Silvio Berlusconi ha dovuto tradire, confrontandosi anche con una mentalità “statale” dei suoi alleati, non ci rimane che Marchionne, in grado di raccogliere i consensi di quell’elettorato di centrodestra che vorrebbe scegliere per il futuro, senza dover passare per un Gianfranco Fini che è la massima delle espressioni dell’opportunismo partitico. Il Cavaliere ha fatto il suo tempo, diciassette anni di politica sono troppi, deve lasciar strada a qualcun altro, ma questo qualcun altro non c’è nell’odierna maggioranza. I sedicenti proclami liberali di Fini non valgono nemmeno la pena di essere raccolti.
A Marchionne viene rinfacciato che se non fosse stato per i soldi dei contribuenti italiani, ora la sua Fiat non sarebbe nemmeno in piedi. È sacrosanto lamentarsi della cosa, ma non è colpa sua se gli Agnelli hanno contrattato con lo stato per anni e anni. Come si usa dire che la colpa dei padri non deve cadere su quella dei figli, è altrettanto giusto che i demeriti dell’Avvocato e della vecchia politica non finiscano per rompere le scatole al manager d’esportazione. Il guaio è che Marchionne non pare intenzionato a fare politica. È troppo lesto.