Archivi del mese: luglio 2011

Cameron è ancora in corsa?

Il primo capitolo dello scandalo che ha colpito News International ha lasciato intendere che il Primo ministro britannico David Cameron è un tipo da non sottovalutare. Circondato da avversari e non solo (scaricato anche dal sindaco di Londra Boris Johnson), Cameron si è presentato di fronte alla House of Commons per rispondere alle insinuazioni e alle accuse nate dalle cattive frequentazioni con i vertici della società di Rupert Murdoch e dall’assunzione dell’ex editor del News of the world Andy Coulson quale addetto alla comunicazione del suo ufficio.

Ha colto l’occasione per contrattaccare, ricordando ai laburisti che non possono fingere di essere immacolati, visti i rapporti che hanno legato tanto Tony Blair quanto Gordon Brown al gruppo editoriale del magnate australiano. Si scommetteva sulle sue dimissioni, ci si è ritrovati con un Cameron ostinato e deciso ad andare avanti.

In attesa di seguire gli sviluppi una volta che James Murdoch sarà tornato di fronte alle autorità ed istituzioni di Londra, il leader conservatore ha spostato l’attenzione della propria agenda politica sul futuro della nazione, richiamando i vertici all’ordine perché la popolazione possa riacquistare la fiducia smarrita dopo la crisi finanziaria, la vicenda sui rimborsi spese che ha colpito il Parlamento alla vigilia delle elezioni di un anno fa, i rapporti oscuri tra polizia, media e politica. La Gran Bretagna soffre di una crisi di confidenza, ha dichiarato Cameron nell’intervista rilasciata a Big Issue, mensile che si occupa di temi sociali e che offre sostegno a disoccupati e senzatetto.

La scelta dell’interlocutore non è casuale dal momento che il Primo ministro, per l’ennesima volta, ha giocato la carta della Big Society, il progetto che ai più pare difficilmente realizzabile e poco chiaro, ma che per Cameron è una delle priorità del suo mandato: là dove lo stato non può arrivare, devono pensarci le associazioni private. Facile nelle intenzioni, meno nell’applicazione. “La Big Society vuole creare una cultura dove la gente si chieda ‘cosa posso fare di più?'”, sono le parole usate da Cameron. Il dovere del cittadino non è solo quello di pagare le tasse e rispettare la legge, va oltre.

Perché accada, ha lasciato intendere, è necessario che il Paese torni ad avere fiducia nei propri mezzi e nella classe dirigente e che gli inglesi rispolverino l’orgoglio di sentirsi membri di una stessa comunità. I sondaggi dicono che l’opinione pubblica non ha irrimediabilmente bocciato Cameron per le amicizie con Rebekah Brooks e la famiglia Murdoch e così, lui, forte anche del riconoscimento arrivato da alcuni critici per la dose di capacità politica con la quale ha gestito la situazione, ha rilanciato.

E con tutte le differenze del caso, sembra di rivedere la scena di un Primo ministro conservatore con il volto di Hugh Grant che ricorda come la Gran Bretagna, dopo tutto, sia la terra di Churchill, Sean Connery e del piede destro di David Beckham.

(via notapolitica.it)

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Miliband vs. Murdoch

Sul caso Murdoch ormai la giostra delle dichiarazioni si è messa a girare e le notizie che arrivano da Londra non fanno altro che contribuire al gioco. Sono saltati i vertici di Scotland Yard, il parlamento si prepara per la commissione di fronte alla quale tanto il magnate australiano quanto la sua ex spalla destra Rebekah Brook dovranno chiarire quello che è accaduto all’interno del gruppo editoriale News International: nel tritacarne ci sono finiti tutti, dai vip alla gente comune, quella che compra tabloid come il defunto News of the World per arrivare alla conclusione che condividono con le star gli stessi problemi dietro le mura di casa.

La politica britannica registra forti scosse sismiche, il Primo ministro David Cameron è accerchiato per via delle sue frequentazioni con le persone indagate e finite dietro le sbarre, mentre gli alleati liberaldemocratici e gli avversari laburisti hanno colto l’occasione al balzo per arrestare l’avanzata di Murdoch nel gruppo BSkyB. I conservatori si sono allineati, dopo aver fatto finta di nulla e d’altronde quotidiani come il Sun o il Times si erano schierati al loro fianco in vista delle General Elections di un anno fa. Come avevano fatto con Tony Blair già a partire dal 1995, quando il futuro Primo ministro laburista era sceso in Australia, nella tana del lupo, per raccogliere l’appoggio del tycoon.

L’aria è cambiata da allora, adesso a dirigere le operazioni nel Labour Party è Ed Miliband: all’inizio della vicenda si presentò di fronte alle telecamere pronunciando un discorso imbarazzante, goffo com’era nel leggere il testo che gli scorreva davanti. Poi ha preso confidenza e si è messo l’elmetto da guerra, rilasciando al The Observer, il domenicale del Guardian, parole di fuoco contro Murdoch: il suo impero va demolito, smantellato.

L’aria è cambiata ed è aria da Old Labour. Secondo Miliband, Murdoch ha troppo potere sulla vita pubblica britannica. Un’affermazione tutta da dimostrare: indagini condotte dalla società Nielsen e pubblicati soltanto lo scorso ottobre, mostrano come dal 2002 al 2009 la popolazione d’Oltremanica abbia di gran lunga preferito la BBC ai notiziari di Sky News, il canale d’informazione 24 ore su 24 che fa parte della galassia BSkyB, di cui Murdoch e figli detengono il 39%. Parliamo di cifre ragguardevoli: il 70% dei telespettatori segue tg o prodotti giornalistici sulla BBC, solo il 6% su Sky News. E l’emittente di stato spadroneggia anche sul web, raccogliendo il 39% delle pagine viste nella classifica dei 50 siti d’informazione più cliccati, contro l’1,7% di Sky News.

Per Miliband è in gioco la libertà di informazione se una sola persona detiene il 20% del mercato dei quotidiani e investe sul satellitare. Occorrono nuove regolamentazioni, quelle esistenti sono da epoca digitale, mentre la Gran Bretagna vive quella dei new media. “Minimizzare l’abuso di potere è francamente piuttosto pericoloso”, ha lasciato detto al quotidiano. Esatto. Quindi la prossima volta dovrebbe suonare ai citofoni della BBC, dove un anno fa facevano il tifo per Gordon Brown.

(via notapolitica)

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Ieri era il 4 luglio

Sono tempi difficili per tutti e lo sono anche per gli Stati Uniti. Tra il serio e il faceto, rischiano grosso e di restare senza sport per un’intera stagione: nella NBA è tempo di sciopero, con la Summer League già cancellata e la stagione regolare che al momento non è data a cominciare e chissà se mai partirà. Tra franchigie e giocatori non è stato raggiunto un accordo sui ricavi da spartire e i palloni sono così in ripostiglio e non sul parquet. Nemmeno la NFL se la passa bene e immaginarsi un autunno senza football è come andare a Miami e trovare tempo brutto per tutta la vacanza. Fortuna che ci sono i campionati universitari, eventi che mobilitano milioni di tifosi in tutti gli angoli del paese, però è arduo pensare che possa bastare per digerire il colpo.

Tra una discussione e l’altra sul debito, le cronache che arrivano dall’altra riva dell’Atlantico ci raccontano che oggi è il 4 luglio e allora è tempo di festeggiare l’indipendenza – sempre ammesso che quello del 1776 non fosse un atto di pura secessione. La storia ci ha poi consegnato una nazione che per quanto possa essere lontana da noi europei (e italiani in particolare) tanto geograficamente quanto politicamente, ha salvaguardato la nostra libertà. Gli USA si amano o si odiano, di certo non si può rimanere indifferenti anche in questi tempi difficili.

L’uomo ha il diritto di sperare nel meglio e di vedere dietro l’angolo una riscossa, uno scatto in avanti, un colpo di reni per riprendere a sorridere e vivere con meno pessimismo e più coraggio. La “pursuit of happiness” che è conservata nella Dichiarazione d’Indipendenza. È una bella sfida perché – come scrive un amico – “nei paesi civilizzati c’è il diritto di cercarla come e dove ti pare, non la certezza di trovarla o il diritto di averla”. Se nessuno ti regala nulla, vattela a prendere, insomma. E non aspettare che sia qualcun altro a indicarti come essere felice, altrimenti quella non sarà una “pursuit of happiness”, ma solo una intromissione nei tuoi affari.

C’è chi fonda la propria repubblica sul lavoro manco fosse stata ai tempi terra sotto il giogo socialcomunista, chi sulla realizzazione della felicità e della libertà dell’individuo. Inutile stare qui a contarcela su chi aveva ragione, su chi aveva visto lungo considerando che tra il 1776 e il 1948 c’è un vasto margine di tempo. Due punti di vista che ritraggono due modi opposti di riflettere.

È il 4 luglio e viene da pensare al fatto che – nonostante i guai, le fatiche e le frenate – gli Stati Uniti rimangono un serbatoio di idee e suggestioni, un laboratorio dal quale attingere sempre che non si viva di preconcetti. Sono una terra ancora viva e con molto da raccontare grazie alla varietà di stili di vita, di paesaggi, di accenti e di razze. E alla quale dobbiamo la nostra libertà.

Buon 4 luglio.

(via rightnation)

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