A poco più di una settimana dal fatidico 6 maggio, l’esito delle elezioni britanniche è quanto mai complesso e imprevedibile. L’ipotesi che si vada verso un parlamento bloccato, senza una maggioranza assoluta, ha preso corpo in termini di numeri reali pochi giorni dopo il via ufficiale della campagna elettorale: i liberaldemocratici di Nick Clegg, con il suo exploit televisivo, hanno confermato la tendenza. Clegg avrà dei meriti, come David Cameron, leader dei conservatori, ha dei demeriti. Non ha saputo amministrare il largo vantaggio che lo aveva ormai portato al numero 10 di Downing Street. Ma erano conti fatti senza l’oste.
Cameron non è il prototipo del conservatore che ci piace. Non è nemmeno il prototipo del politico che apprezziamo: ha un’aria snob che si porta appresso e che tenta di mascherare goffamente in ogni occasione. Ha però fino ad ora svolto il compito di riportare i Tories ad un passo dalla vittoria – per quanto anche in questo caso pesino tredici anni di governo che hanno logorato i laburisti. Cameron non sopporta il patrimonio della Thatcher e si sforza per mettere in luce le modernità del partito, come se la lezione della Lady di Ferro non fosse attuale. A volte è più preoccupato di far notare a tutti che il pollice verde piuttosto che gli attributi per dire chiaro e tondo: taglio la spesa pubblica.
Ma Oltremanica si sta combattendo una nuova battaglia per l’Inghilterra. Il Paese di re e regine, di Shakespeare, del piede destro di David Beckham, di Web Ellis, inventore del rugby, di Sir Winston Churchill, dei Beatles e del Brit pop ha deragliato in modo preoccupante: si è ritrovato con i terroristi islamici fatti in casa, ha fatto i conti con la legge del Londonistan, ha affrontato i costi della crisi finanziaria, ha dovuto difendere i pub dalla marmaglia salutista, ha visto diminuire il consumo di birra e salire i rimborsi spese per i suoi parlamentari.
Nick Clegg, come scrive giustamente lo Spectator, per l’opinione pubblica media simbolizza al momento il cosiddetto “blowing a rasperry”: una pernacchia di protesta. Non è la soluzione, inciucia con Brown per accaparrarsi il diritto di dire: io sono al governo, dettando i termini per una coalizione. Per quanto il suo conservatorismo sia smorto e a volte addirittura veltroniano, Cameron è pur sempre un Torie. E dunque diciamolo una volta per tutte: noi il 6 maggio tifiamo per lui.