A dibattito quasi meno caldo, lo dico: a me il discorso di Gianfranco Fini non ha fatto impazzire. Molti gli spunti, non ci piove. Molti i temi da raccogliere e portare avanti e ottimi gli inviti a portare allo scoperto la sinistra, se non altro per capire di quale pasta – per l’ennesima volta – sia fatta. Ma il discorso di Gianfranco Fini, a me, proprio non va giù.
L’opinione comune è che il presidente della Camera parli da statista compiuto. Bastasse un discorso rubato alla nouvelle droit francese, un po’ sarkozyana un po’ compassionevole, per arrivare a questa conclusione, allora davvero la politica non avrebbe più nulla da offrire. L’ex numero uno di Alleanza nazionale e nuovo numero due del Pdl ha riscaldato la minestra già troppe volte condita da quando, assieme a Giuliano Amato, volò in Europa per mettere nero sua bianco la Carta fallimentare. Da allora Fini ha sentito il profumo della grande famiglia popolare europea e ci si è buttato a capofitto. Svendendo mobili ed immobili per il grande viaggio.
A conti fatti, a me andava a genio quel Gianfranco Fini che non aveva vergogna a dire che lui un insegnante omosessuale per il figlio alle elementari non lo voleva. Almeno non si nascondeva dietro a quel grigio abito che si è voluto mettere addosso per fare la figura dello statista.
Di fronte al tema della crisi, non ha voluto centrare l’obiettivo. Vale a dire che le crisi dipendono dall’uomo, perché è l’uomo che fa girare l’economia. Ha parlato di massimi sistemi, di finanza intrecciata all’economia reale, di profitti e dividendi. Ma non ha avuto il coraggio, da conservatore quale non è, di affermare la soluzione va cercata nella massificazione della finanza. Nell’aver levato quei limiti che garantivano il principio del limite nel capitalismo. Che quando si vogliono far sposare capitale e socialismo, la frittata è fatta.
Ma è soprattutto di fronte al tema del futuro italiano che Fini mi ha deluso. Lo so bene anche io che il futuro del nostro Paese prevede cittadini con gli occhi a mandorla e il colore della pelle che non sia quello bianco e una fede in un dio che non è il Dio protagonista di una visione culturale e religiosa, base della nostra civiltà, che ci ha fatto sopravvivvere ai drammi del nazismo e del comunismo. Che ha retto di fronte a tutto. Fini per fare bella figura, ormai ha svenduto la fede al miglior offerente. Perché se è sacrosanto dare una mano agli ultimi (e questo lo insegna il Cristianesimo da millenni, non la realtà squarciata della crisi e del multiculturalismo), è altrettanto sacrosanto che l’Italia sia degli italiani, prima di tutto. Poi di chi verrà dopo di loro. Ma prima a chi paga le tasse e manda avanti tutto il resto, secondo il vecchio precetto – mai superato – del no taxation without rapresentation.
E infine le rifome. Ok al via libera alla nuova – l’ennesima – stagione di riforme. Ma se riforme devono essere, allora non siano le frasi in politichese per la loro condivisione: chi ha i numeri, legiferi. Chi lo può fare, lo faccia. Senza dover pagare un pegno inutile alle istituzioni, le stesse che si ammette debbano essere riformate. Altrimenti il buon Gianfranco Fini, quando sarà presidente del Consiglio, avrà pure lui le mani legate. E sarà stata solo colpa sua.