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Questione culturale

Ne è stata fatta una questione politica, ma più che altro è culturale. I guai sono cominciati da quando, nel dopoguerra che apriva le porte al benessere, lo Stato si è avvalso del diritto di dire ai genitori di non preoccuparsi, che i figli glieli avrebbe allevati lui. Li ha coccolati, mentre i babbi e le mamme li hanno protetti e giustificati, assegnando loro un compito ben preciso: ottenere tutto ciò che chiedevano – o meglio pretendevano, con la pretesa di riscattare le difficoltà e le rinunce del passato. La prospettiva lo consentiva, allora. Adesso non più. Probabilmente, per la prima volta negli ultimi cinquant’anni, ci sarà una generazione più povera di quella che l’ha preceduta e il malessere ha cominciato a diffondersi rapidamente. E quando inizia il contagio di massa di un virus, si scatenano le reazioni più violente.

Come se poi fossero soltanto quelli scesi per le strade di Roma o delle altre capitali mondiali, gli indignati. Non è affatto vero: lo sanno i politici, lo sanno i media. Fingono di non accorgersene e gli va bene perché quest’altra categoria di indignati ha delle basi sulle quali fare affidamento e alle manifestazioni preferisce uno strumento di gran lunga più serio: il ragionamento. Trattengono l’istinto, arrestano la piena di sangue diretta al cervello, provano a capire perché le cose non funzionano come dovrebbero. Non sono massa, sono individui.

(continua su The Right Nation)

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Troppo facile

C’è gente che si è stracciata le vesti per un paio di articoli pubblicati dal Corriere (1 e 2) e per alcuni passaggi nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sensazioni condivise, voglia di speranza per un anno quantomeno decente, la forza delle idee che non tramonta mai, la solita minestra riscaldata. Non occorrevano certo due editoriali sul quotidiano di via Solferino o un messaggio istituzionale per sollevare la coperta sui guai del nostro Paese: i poveri cristiani che tutti i giorni non vivono nei palazzi della politica, ma sul luogo di lavoro o no li conoscevano da tempo. Ma l’abilità della classe dirigente attuale e futura – o forse futurista? – nel ribadire “noi sono anni che lo diciamo!” è meravigliosamente scandalosa.

E’ troppo facile mettersi ad applaudire ora. E’ troppo facile ipotizzare che sia solo il Cavaliere la causa dello stallo di questa nazione, per quanto con 20 anni di carriera politica alle spalle, anche Silvio Berlusconi ha le sue responsabilità: attendiamo ancora non la rivoluzione liberale, ma almeno un taglio delle tasse, manco che vengano dimezzate, ma giusto una sforbiciata per dare un senso alla dignità dei contribuenti, giusto per fare un esempio tra i mille.

La colpa è di tutti quelli che da vent’anni cavalcano la scena e non hanno combinato granché. In compenso, a quanto pare, leggono i giornali e così rubano passaggi dai commenti pubblicati e vi appongono il proprio marchio di fabbrica. Il guaio è che non c’è da rallegrarsi: i curriculum di chi aspira al potere in Italia ci dicono che siamo davanti a personaggi che hanno gravitato da sempre attorno ai salotti della politica, che hanno fatto della politica il loro lavoro, senza rispondere al principio della responsabilità per cui se uno sbaglia sul luogo di lavoro, qualcosa dovrà pure pagare. Scene che abbiamo già visto e che ci hanno ridotto a ciò che siamo.

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Nel pallone

Sono i Mondiali della crisi e se non ci credete, date un’occhiata ai moduli delle squadre. Vanno di moda il 4-2-3-1, il 4-3-2-1 e il 4-2-2-2. O almeno così la Gazzetta dello Sport dispone in campo il Brasile di Dunga. Un numero imprecisato di trequartisti o mezze punte, palliativi per regalare qualche falsa emozione in assenza di attaccanti veri e propri.

Il bel gioco latita, a centrocampo la gente si pesta i piedi e si smarrisce in una serie infinita di passaggi contro muri difensivi di sei – sette uomini. A quel punto si tenta la conclusione da fuori, una botta dalla distanza che deve fare i conti con un pallone che va dove meglio crede e intanto fallisce il tentativo di coniugare il palleggio del Barcellona al modus operandi di José Mourinho: pure il ct del Camerun ha schierato Eto’o come terzino destro nel match di esordio con il Giappone, perso 1-0.

Prendete poi la Francia che è arrivata in Sud Africa grazie al colpo di mano di Henry: come al solito sbruffona, anche nel gestire l’affare Anelka – Domenech pubblicamente. Da quando Sarkozy ha perso la testa per Carla Bruni, Oltralpe ne succedono di tutti i colori. L’Inghilterra di Capello è annoiata e per niente pop come il governo libdem uscito dalle elezioni di un mese fa che David Cameron ha gettato alle ortiche. L’Italia è casinara come la sua capitale sudamericana, Roma, dove il sacro si mescola al profano e quello che capita nel resto del Paese è solo un’eco lontana. Gli Stati Uniti pareggiano, ma per i media vincono: è tipo Obama, che sbaglia, “ma non per colpa sua”. La Spagna ha addirittura perso al debutto con la Svizzera e ogni commento geopolitico è superfluo.

In attesa di tornare agli schemi classici (4-4-2, gioco sulle fasce, terzini che si sovrappongono, centrocampisti che coprono il campo, il fantasista che detta e le punte che eseguono, punto-e-basta, tutto il resto è noia), attendiamo impazienti la B Zona di Oronzo Canà.

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I simpaticoni

Sono simpatici quelli di Alleanza nazionale – o chi è rimasto di loro dopo aver abbandonato il capo per aggrapparsi all’orlo dei pantaloni di Berlusconi per restare a galla, regalando una divertentissima scenetta alla “ti ricordi quando mi dicevi che…? E adesso fai il contrario!?” alla famosa riunione del Pdl di qualche tempo fa.

Hanno imparato, sono diventati grandi, altro che colonnelli: adesso possono vantare una tacca in più da generali. Fanno i sorrisetti se vedono Tremonti sotto attacco mediatico per via della manovra e dei tagli previsti; dicono che si fa tanta cagnara per poi non arrivare a nulla; ce l’hanno ovviamente sempre con i leghisti; si spacciano per l’alternativa liberale in un governo di socialisti (che poi questo è, purtroppo, spesso un governo di socialisti). Ma dimenticano presto di quando piangevano come pischelli perché gli statali avessero un aumento.

Sono simpatici anche quelli di Forza Italia, gente che risponde a comando. Sul plotone vige il silenzio, nessuno fiata perché all’orizzonte compare uno scontro Cavaliere vs. Ragioniere. E sai mai che poi devi decidere da che parte stare, tanto vale non bruciarsi subito. Sarà il fatto che si avvicina l’estate e, crisi o non crisi, le vacanze sono un diritto sacrosanto.

E allora speriamo che arrivino presto.

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Impopolari? Chi se ne frega

La matematica non sarà pure un’opinione, ma l’economia sì. Non ce ne intendiamo un granché, ma proviamo a ragionar di logica. Girano dei menagramo che prospettano una brutta fine per l’Italia, come in Grecia per intenderci. Intanto il governo ha finalmente deciso di prendere di petto la questione del taglio della spesa pubblica o, molto più semplicemente, ha appreso l’arte dei nostri vecchi: pochi sghei? Tiriamo la cinghia.

Nei momenti di sacrifici, c’è sempre chi batte i pungi sul tavolo perché vuole una doppia porzione di pappa, ma anche se alcune misure prese dall’esecutivo saranno impopolari, chi se ne frega. L’importante è tenere a galla la baracca. Alcuni italiani forse non si ricordano più come si faccia, a tirare la cinghia: che non significa mangiare pane ed acqua e trascorrere l’estate negli appartamenti di città. Quello lasciamo che lo dica Bersani.

Cut, cut, cut

Il Chancellor del governo di David Cameron, George Osborne, quest’oggi rivelerà i dettagli del piano economico che prevede un taglio della spesa pari a 6.2 miliardi di sterline. Il Deputy Prime Minister, il liberaldemocratico Nick Clegg, ieri aveva detto che alcune delle misure prese in considerazione scontenteranno molti cittadini.

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Ruote bucate

Roma, 30 set. – (Adnkronos) – «Responsabilmente esamineremo la situazione. Abbiamo fatto un intervento molto posivito nel settore auto, se quando scade il provvedimento c’è necessità e convenienza di rinnovarlo il governo non si tirerà indietro». Lo ha detto il premier Silvio Berlusconi, a SkyTg24, a proposito dell’appello dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne per una nuova serie di incentivi al settore auto.

Come non detto, a proposito della destra berlusconiana.

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Addio del passato

A dibattito quasi meno caldo, lo dico: a me il discorso di Gianfranco Fini non ha fatto impazzire. Molti gli spunti, non ci piove. Molti i temi da raccogliere e portare avanti e ottimi gli inviti a portare allo scoperto la sinistra, se non altro per capire di quale pasta – per l’ennesima volta – sia fatta. Ma il discorso di Gianfranco Fini, a me, proprio non va giù.

L’opinione comune è che il presidente della Camera parli da statista compiuto. Bastasse un discorso rubato alla nouvelle droit francese, un po’ sarkozyana un po’ compassionevole, per arrivare a questa conclusione, allora davvero la politica non avrebbe più nulla da offrire. L’ex numero uno di Alleanza nazionale e nuovo numero due del Pdl ha riscaldato la minestra già troppe volte condita da quando, assieme a Giuliano Amato, volò in Europa per mettere nero sua bianco la Carta fallimentare. Da allora Fini ha sentito il profumo della grande famiglia popolare europea e ci si è buttato a capofitto. Svendendo mobili ed immobili per il grande viaggio.

A conti fatti, a me andava a genio quel Gianfranco Fini che non aveva vergogna a dire che lui un insegnante omosessuale per il figlio alle elementari non lo voleva. Almeno non si nascondeva dietro a quel grigio abito che si è voluto mettere addosso per fare la figura dello statista.

Di fronte al tema della crisi, non ha voluto centrare l’obiettivo. Vale a dire che le crisi dipendono dall’uomo, perché è l’uomo che fa girare l’economia. Ha parlato di massimi sistemi, di finanza intrecciata all’economia reale, di profitti e dividendi. Ma non ha avuto il coraggio, da conservatore quale non è, di affermare la soluzione va cercata nella massificazione della finanza. Nell’aver levato quei limiti che garantivano il principio del limite nel capitalismo. Che quando si vogliono far sposare capitale e socialismo, la frittata è fatta.

Ma è soprattutto di fronte al tema del futuro italiano che Fini mi ha deluso. Lo so bene anche io che il futuro del nostro Paese prevede cittadini con gli occhi a mandorla e il colore della pelle che non sia quello bianco e una fede in un dio che non è il Dio protagonista di una visione culturale e religiosa, base della nostra civiltà, che ci ha fatto sopravvivvere ai drammi del nazismo e del comunismo. Che ha retto di fronte a tutto. Fini per fare bella figura, ormai ha svenduto la fede al miglior offerente. Perché se è sacrosanto dare una mano agli ultimi (e questo lo insegna il Cristianesimo da millenni, non la realtà squarciata della crisi e del multiculturalismo), è altrettanto sacrosanto che l’Italia sia degli italiani, prima di tutto. Poi di chi verrà dopo di loro. Ma prima a chi paga le tasse e manda avanti tutto il resto, secondo il vecchio precetto – mai superato – del no taxation without rapresentation.

E infine le rifome. Ok al via libera alla nuova – l’ennesima – stagione di riforme. Ma se riforme devono essere, allora non siano le frasi in politichese per la loro condivisione: chi ha i numeri, legiferi. Chi lo può fare, lo faccia. Senza dover pagare un pegno inutile alle istituzioni, le stesse che si ammette debbano essere riformate. Altrimenti il buon Gianfranco Fini, quando sarà presidente del Consiglio, avrà pure lui le mani legate. E sarà stata solo colpa sua.

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